giovedì 9 dicembre 2010

"NOSTALGHIA" DI Andrej Tarkovskij: tra teoria e set

Ultima inquadratura di "Nostalghia"

ANDREJ ARSEN’EVIČ TARKOVSKIJ

«Il cinema è un mosaico fatto di tempo», con quest’affermazione Tarkovskij
sintetizzava gran parte della sua estetica del cinema che era basata su questi tre grandi
pilastri:
  •  L’essenza composita: cioè riconoscere e interpretare il peso di ogni singolainquadratura nell’insieme del film.
  •  L’immagine: la composizione, quindi, la parte legata al vedere è di primaria importanza.
  • Il tempo: che si restringe e si dilata, tempo che impregna ogni singola scena dei suoi film.
Partendo da questi tre punti è possibile ottenere un quadro generale, o comunque un punto di vista, interessante sul lavoro e sulla persona di Tarkovskij per
poter, conseguentemente affrontare un più grande lavoro di analisi sulla singola opera,
sempre inquadrata in quella che è la sua Produzione artistica.
La sua concezione estetica lo porta ad utilizzare il movimento (sia quello
interno all’inquadratura che quello proprio della mdp), la presenza umana, il colore ed
il bianco e nero in una maniera differente da tutto il cinema fin lì concepito.
Nel cinema che consideriamo standard o commerciale, si tende a concepire il
film come un’insieme di cose messe insieme in maniera che lo spettatore possa
decodificarlo velocemente, senza troppi sforzi, questo è solo intrattenimento.
Tarkovskij con il suo lavoro provava ad evitare tutto questo. Cercava di creare
uno spunto di riflessione per coloro i quali assistevano ad una sua opera, provava a
farli emozionare, ma non con una storia d’amore strappalacrime bensì spingendoli a
pensare su vari livelli e su varie tematiche. Ad esempio in Nostalghia esiste quella che si può definire una storia d’amore, ma è trattata in maniera tale da darle tutto il
rispetto che merita, inserendola in un contesto complesso, che riflette la difficoltà di
una storia di questo tipo, e raccontandola con un linguaggio che sarebbe riduttivo
definire poetico.
L’essenza composita deriva da tutto questo. Tutto parte dal rispetto di ciò che
si sta facendo e dal rispetto per le persone che osserveranno i suoi film. Ogni scena,
ogni inquadratura è concepita in modo tale da avere il proprio peso nell’insieme, non
esistono scene accessorie e non esiste il montaggio che altera il lavoro di attori e
operatori con continui tagli.
Ogni scena, ogni piano, ogni sequenza è un’unità di significato che acquisisce
un determinato senso se inserito in un contesto così ben pensato come, in Nostalghia.
Il tempo, è l’alleato principale di ogni persona che decide di fare cinema
perché senza di esso il tutto si ridurrebbe ad una grande quantità di foto, come i primi
studi sul movimento. In Tarkovskij tutto questo è ben presente, il tempo è utilizzato
seguendo le necessità della scena e viceversa le immagini sanno, comunque, piegarsi
al tempo che scorre.
Nei film di Tarkovskij non esiste un divenire costretto dal tempo, il tutto si
evolve come in una simbiosi, le immagini, il suono ed il tempo si compenetrano l’un
l’altro, si alimentano vicendevolmente. Prendiamo ad esempio il piano-sequenza più
famoso di Nostalghia: Gorčiakov si trova nella piscina, il film sta quasi per terminare,
egli deve adempiere al suo dovere, portando da un lato all’altro della vasca una
candela rigorosamente accesa, senza farla spegnere. Questa scena dura quasi dieci
minuti, senza alcun taglio e senza alcuna modifica del tempo dell’azione, che scorre
in maniera regolare. Ed è proprio a questo punto che possiamo affermare con certezza
che la mdp di Tarkovskij non ha fretta, non vuole arrivare subito alla fine, sa che in
questo modo non si potrebbe ottenere lo stesso risultato.
Ad ogni cosa è concesso il suo tempo, all’attore, all’inconveniente, persino
alla morte del protagonista.

Nostalghia, tempi concentrici
 
La struttura del film che prenderemo in considerazione, Nostalghia, ci da modo di
affrontare alcune delle tematiche che, nell’ambito della letteratura cinematografica,
vengono ritenute di estrema importanza. Il tempo nella sua purezza e le varie
tipologie di tempo derivanti che si possono riscontrare all’interno di molti film.
Prendendo in considerazione il film nella sua composita interezza, riusciamo ad
ottenere molte informazioni; una delle più importanti, che costituirà la spina dorsale
del nostro lavoro, è la costituzione strutturale dei tempi derivati dallo scorrere logico
del film. Infatti, possiamo chiaramente notare, che essa è costituita da livelli
concentrici che ruotano e si incrociano. Tenendo conto dell’elemento esterno al film,
la persona che lo sta osservando o semplicemente guardando, si ottiene la possibilità
che la pellicola venga fruita a diversi livelli, tutti importanti ed essenziali.
E non si tratta di concatenazioni di livelli non intelligibili, il tutto è comprensibile
come puro significato audiovisivo oltre che come consecuzione di segni che lo
spettatore può riconoscere in maniera più o meno soggettiva.
Di seguito, abbiamo preparato uno schema dei livelli che si possono individuare in
Nostalghia, che ci permetteranno di affrontarne l’analisi dal punto di vista del
problema cinematografico del tempo.

Corrispondenze
 
Se per i primi tre livelli sopra schematizzati non c’è molto da spiegare (essi
corrispondono ad elementi che costituiscono chiaramente la struttura del film), la
situazione cambia quando ci interessiamo del quarto e del quinto livello; essi vengono
recepiti e decodificati in funzione dei primi tre livelli.
Tempo della realtà filmica (o tempo diegetico): nei film narrativi esso si basa
sul tempo che la narrazione abbraccia, può essere lineare o non lineare. Nel nostro
caso, possiamo affermare che la narrazione sia lineare, poiché segue un’evoluzione
logica senza ricorrere ad artifici . La storia di Gorčiakov, si snoda con regolarità tra i
vari luoghi e le varie situazioni, questo ci spinge a considerare il bisogno di semplicità
nell’intreccio principale, che lascerà spazio a una più complessa visione con il
progredire dell’analisi. Semplicità che serve al regista per effettuare una riflessione
sullo stato della sua esperienza personale a livello generale, essendo Nostalghia un
film dal chiaro riferimento autobiografico, incentrato sulla figura di un personaggio
che si trova davanti ad una realtà pesante e triste. Sia il musicista di cui si narra, che
Gorčiakov si trovano (come Tarkovskij) in terra straniera dove il primo e il terzo
moriranno, il secondo invece farà ritorno in patria, per poi scoprire di non riuscire più
a reintegrarsi.
In questo livello troviamo gli elementi della “Nostalghia” che maggiormente
colpisce l’animo russo, cioè la lontananza dalla patria, l’ammirazione per il luogo in
cui si trovano e l’impossibilità di poter condividere con i cari tale bellezza, a causa di
una forza esterna (la burocrazia) e il conflitto che si viene a creare tra questi elementi.
I Russi emigranti vorrebbero stare li in quel posto bellissimo ma contemporaneamente
non riescono ad adattarvisi e vorrebbero che il posto si adattasse a loro, vorrebbero
che diventasse come la madrepatria. Quindi in questo livello troviamo una narrazione
che presenta caratteristiche autoriflessive, che automaticamente recherà in se i semi
della “Nostalghia”; Questi semi daranno il loro frutto in un momento successivo, che
sarà il più complesso da evidenziare.
Tempo dello stato di sogno\pensiero: qui l’autoriflessività è comunque presente
ma in maniera differente. Il dialogo si dirada e suoni\rumori\musica prendono il
sopravvento creando uno stato di profonda attenzione da parte dello spettatore. Il
pensiero si acuisce, mettendo in moto l’interpretazione, qui noi troviamo la resa visiva
e sonora della “Nostalghia”, fatta di immagini in bianco e nero sfuggenti ed
enigmatiche, che vacillano tra il simbolismo e la pura visione. E’ proprio in questo
momento che noi leggiamo il pensiero dello scrittore che riflette il conflitto interno
del regista.
Tutto si fa chiaro fino al punto in cui l’immagine diventa specchio (Deleuze,
1985:85) di un conflitto che sfocia nella più elevata ricerca di una soluzione. La
soluzione agli annosi problemi della società odierna, che può essere attuata
esclusivamente mettendo in pratica una collaborazione tra identità diverse, che
seguendo un proprio cammino spirituale, riescano a dare primariamente una soluzione
ai conflitti interni all’essere umano in quanto individuo, per poi proiettarne le
conseguenze, sui conflitti che riguardano l’intera umanità. Riflessioni che si
intrecciano e si scambiano per ottenere una transazione dal personale, che via via
diventa cristallino, fino a dover poi cedere la sua lucentezza e la sua traslucenza a
qualcosa di più grande, fondendosi in esso.

Nostalghia
 
«Nostalghia è molto difficile: semplice, quasi primitivo nella forma (quello
che ho sempre voluto), ma, ottenuto il materiale che volevo, mi sono spaventato. O
sarà geniale o sarà, o sarà una cosa completamente priva di talento.»(Tarkovskij,
1983: 540). Così scriveva Tarkovskij il 26 gennaio del 1983 a Roma. Per il regista
questo film ha avuto sempre un significato particolare: per la prima volta Tarkovskij
girava fuori dalla sua terra senza protezioni di alcun genere, doveva preoccuparsi di
tutti i problemi, le problematiche legate al fattore economico erano quelle che lo
turbavano di più, visto che in Russia non aveva mai avuto problemi di soldi durante le
riprese; contemporaneamente aveva il problema della lingua, bisognava tradurre
qualsiasi cosa in almeno tre lingue e così avveniva anche sul set dove i traduttori
traducevano in maniera continua tutto quello che veniva detto. Non meno importanti
erano i problemi burocratici che risultavano pesanti nei momenti più importanti.
Infatti il dipartimento del governo russo che si occupava di queste faccende era
sempre reticente alla collaborazione per svariati motivi mentre in RAI creavano
problemi quando si parlava di denaro.
Nonostante tutto Tarkovskij in Italia ha lavorato tanto e bene, ha creato molto
grazie all’aiuto ed al conforto di Tonino Guerra che gli è sempre stato vicino. Grazie a
questa collaborazione nascono molte altre opere come uno “Special” su l’esperienza
Italiana, tre film documentari per la regia di Donatella Baglivo e molte altre creazioni
letterarie.
Tarkovskij ha sentito più volte vacillare la speranza di riuscire a girare questo
film, più volte la burocrazia gli ha messo i bastoni tra le ruote e più volte l’aspetto
umano è stato trascurato. Il prodotto è stato un film pregno di tristezza nostalgia e
rabbia. Egli era vessato anche dalla mancanza dei suoi cari che, sempre per problemi
burocratici, non riuscirono ad andare in Italia. Durante la sua permanenza in Italia
muore sua madre alla quale era molto legato, segue un brutto periodo di tristezza e
depressione.
Prima di arrivare alla composizione definitiva del cast di Nostalghia,
Tarkovskij cambia idea più volte; prima avrebbe voluto tutti attori russi, poi un’attrice
americana ed in fine due attori francesi, ma le società coinvolte nella produzione
ebbero la meglio, così solo i due attori principali furono scelti in Russia mentre
dall’Italia proviene il resto del cast.
In definitiva Tarkovskij e coloro che gli stavano accanto, trascorsero degli anni
difficili prima di riuscire a tirare le fila di tutto il progetto Nostalghia. Furono anni
costellati da continui viaggi e traslochi. Tarkovskij cambiò parecchi hotel e
appartamenti a causa delle ristrettezze economiche e i suoi problemi di salute non gli
davano la possibilità di poter mantenere uno stile di vita regolare e comodo.

Scheda tecnica
 
Andrej Gorciakov è uno scrittore russo in viaggio in Italia, il paese in cui, un
tempo, visse un musicista del Settecento suo connazionale, di cui egli sta ora
scrivendo la biografia. Gorciakov è accompagnato dalla traduttrice Eugenia: il
lacerante ricordo della sua terra, della famiglia, della casa, della moglie in attesa, gli
impedisce di cedere all'attraente ragazza. Costei gli dimostra un'attenzione costante,
soddisfacendo ogni suo desiderio: lo porta a Monterchi, per vedere la "Madonna del
parto" di Piero della Francesca (ma è solo la donna ad entrare nella cappella:
Gorciakov confessa di essere "stanco di queste bellezze eccessive"); e a Bagno
Vignoni, nei pressi della piscina che frequentò Santa Caterina. Prima di partire
definitivamente alla volta di Roma perché ormai esasperata dal suo comportamento,
Eugenia accompagna Gorciakov da Domenico, un laureato in matematica ch'è
diventato il matto del paese. Domenico ha tenuto la propria famiglia segregata in casa
per sette anni, in attesa della fine del mondo: ora vive assieme ad un cane, e la casa è
fatiscente. Confessa di aver capito che "bisogna salvare tutti, il mondo", e chiede a
Gorciakov di attraversare la piscina con una candela accesa in mano: lui non lo può
fare, appena va in acqua la gente, allarmata, corre a tirarlo fuori. Così, mentre
Domenico, trasferitosi anche lui a Roma, arringa un gruppo di folli dall'alto della
statua di Marc'Aurelio, Gorciakov torna a Bagno Vignoni per mantenere la promessa.
Intanto, terminato il suo discorso, Domenico si dà fuoco e muore. La piscina è stata appena svuotata: Gorciakov la attraversa con circospezione, ma il vento spegne per
due volte la fiammella della candela. Il terzo tentativo va a buon fine. Il cuore del
protagonista, tuttavia, cede, e costui si accascia al suolo. L'ultima immagine ritrae
Gorciakov nei pressi della sua amata dacia; questa sorge ora all'interno della chiesa di San Galgano
. < h t t p : / / w w w. c omi n g s o o n . i t / s c h e d a _ f i lm. a s p ?key=14405&film=Nostalghia> (27/06/2009)

Titolo: Nostalghia
Anno di produzione: 1983
Regista: Andrej Tarkovskij
Sceneggiatura: Andrej Tarkovskij e Tonino Guerra
Cast: Oleg Jankovskij – Andrej Gorčiakov
Erland Josephson – Domenico
Domiziana Giordano – Eugenia
Patrizia Terreno – Moglie di Gorčiakov
Laura De Marchi – Affittacamere
Delia Boccadoro – Moglie di Domenico
Milena Vukotic – Donna di servizio (piscina)
Delegato RAI alla produzione: Lorenzo Ostuni
Aiuti regia: Norman Mozzato
Larisa Tarkovskaja
Operatore alla macchina: Giuseppe Biasi
Fotografo di scena: Bruno Bruni
Fonico: Remo Ugolinelli
Arredatore: Mauro Passi
Direttore del doppiaggio: Filippo Ottoni
Assistente al Doppiaggio: Ivana Fedele
Consulente al doppiaggio: Denis Pekarev
Consulenza musicale: Gino Peguri
Fonico del mixage: Danilo Moroni
Effetti Sonori: Massimo e luciano Anzellotti
Voci: Eugenia – Lia Tanzi
Domenico – Sergio Fiorentini
Direttore della fotografia: Giuseppe Lanci
Scenografia: Andrea Crisanti
Costumi: Lina Nerli Taviani
Montaggio: Erminia Marani
Amendeo Salfa
Produzone: Rete 2 TV RAI
In collaborazione con: SOVIN FILM – URSS
Realizzazione: Renzo Rossellini
Manolo Bolognini
Per la: OPERA FILM PRODUZIONE s.r.l.
Durata: 125 minuti
Paese: Italia/URSS
Lingua: Italiano/Russo
Immagine: Colore/Bianco e nero
Aspetto (proporzioni): 1.66:1
Locations: Bagno Vignoni, San Quirico d’Orcia, Siena, Toscana, Italia

Osservazioni generali

In Nostalghia è palese il sentimento d’impotenza e di malinconia che si
avverte in ogni particolare che lo compone; nei dialoghi, nella grande cinematografia
di Lanci, nelle scenografie di Crisanti, nei paesaggi spogli con strutture decadenti
lasciate al tempo nelle sparute note che flebilmente (tranne che nel caso di Beethoven)
scivolano sotto le immagini. Anche l’atteggiamento fisico delle persone ci rimanda a
uomini senza speranza, senza gioia senza voglia di vivere. Possiamo dire che
Tarkovskij è riuscito nel suo intento, rendere la decadenza della nostra società.
La semplicità della composizione del quadro si sposa perfettamente con la
mancanza di montaggio inteso classicamente per creare il movimento o il ritmo,
anche perché la tendenza, in questo film più che negli altri, è quella di creare il
movimento e la tensione con gli spostamenti degli attori e col moto della mdp. Tutto è
estremamente lento e posato, i tempi si dilatano o si restringono secondo leggi
differenti dal contrappunto. Anche nei momenti di più alta tensione si ha sempre una
pacatezza che probabilmente riesce meglio, lì dove un altro regista avrebbe inserito
movimenti più veloci o un rapido cambio di punto di vista.
Tuttavia possiamo notare analizzando gli spostamenti del protagonista che
ciclicamente egli ritorna a Bagno Vignoni, ove muore. Visita molti posti, ma la
promessa che ha fatto a Domenico lo porta nuovamente qui, attorno alla grande
piscina di S. Cristina dove il suo cammino termina. Anche la colonna sonora è chiusa
su se stessa, all’inizio del film troviamo un canto popolare russo, (del quale riporto la
traduzione) che si fonde con il primo movimento della Messa per Requiem di Verdi
(Requiem e Kyrie), mentre alla fine è l‘opera di Verdi a fondersi prima con rumori e
voci per poi ritornare sul canto popolare russo.

Traduzione in italiano del canto popolare russo:
«Se andate lontano, così andate in un giardino verde.
In quel giardino cogliete dei fiori belli.
Da quei fiori belli fate una corona bellissima,
Una corona bella anche per me»

In ultima analisi, vorrei trattare un aspetto che potrebbe passare inosservato se
ci soffermassimo solo un’analisi più generale, ma che risulta qui di primaria
importanza da un punto di vista umano. Colui che fa riflettere Gorčiakov, che va a
Roma per parlare in Piazza del Campidoglio e che attira l’attenzione di tutte le
persone che lo incontrano è comunemente considerato un pazzo, una persona reietta a
causa della sua differenza, nel pensare e nel comportarsi. Con un colpo solo
Tarkovskij riesce a mettere in campo una critica alla società e all’approvazione di
leggi discutibili che hanno portato alla dispersione di tutte quelle persone considerate
psicologicamente poco sane, tratta la tematica della ghettizzazione del diverso e porta
avanti la protesta per la perdita di contatto tra tutti gli uomini. Domenico è un
personaggio chiave all’interno dell’intreccio creato da Tarkovskij, cambia in maniera
inaspettata quelli che sarebbero stati, altrimenti, i percorsi di tutte le persone coinvolte
nella storia che si crea a Bagno Vignoni.

Nostalghia in teoria

Nostalghia in parole. Mettere in parole ciò che questo film dice con le immagini è
come tradurre una poesia, difficile e rischioso, tenendo conto della genuinità del
pensiero originario. Anche se è l’autore stesso a mutare le immagini in concetti e
parole, è comunque difficile rimanere certi del proprio rigore intellettuale
nell’effettuare questa operazione.
Leggendo, riusciamo ad interpretare facilmente quelli che erano i propositi e i
pensieri di Tarkovskij su questo film. Possiamo anche intuire le piccole delusioni e le
sorprese che la realizzazione di questa opera hanno generato in lui.
«Rimasi stupito e rallegrato allo stesso tempo perché il risultato impresso sulla
pellicola e che per la prima volta appariva davanti a me nel buio della sala di
proiezione testimoniava che le mie considerazioni sulle possibilità e sulla vocazione
dell’arte cinematografica di diventare un calco dell’anima umana e di comunicare
un’esperienza umana unica non erano il frutto di un’elucubrazione oziosa, bensì una
realtà che mi stava davanti in tutta la sua indiscutibilità...» (Tarkovskij, 1986:180)
Tarkovskij non ama ripetere o discutere la trama dei suoi film, infatti anche
quando è costretto a farlo a causa del dover creare un filo logico da seguire, cerca
sempre di essere il più costruttivo possibile, facendo capire immediatamente al lettore
di cosa si sta parlando nella fabula. Un regista russo in esilio volontario (Tarkovskij),
gira un film dalle caratteristiche russe in Italia, mostrando un poeta russo (Gortčakov)
che, a causa del lavoro, arriverà in Italia per raccogliere informazioni su un
compositore russo (che fu mandato in Italia per migliorare le sue capacità legate alla
musica scritta e suonata), nello stesso tempo Gortčakov è accompagnato in Italia da
una donna, una traduttrice, della quale si invaghisce. Il sentimento è ricambiato, ma la
moglie lontana inibisce il rapporto.
La permanenza di Tarkovskij in Italia fa mutare di continuo l’idea di film che in
Russia era riuscito a creare, le bellezze del Belpaese e l’impossibilità di condividere
tutto ciò con i suoi cari, bloccati nella loro patria, lo rendono triste e negativo nel
pensiero. Scrive di questo sentimento che è simile alla nostalgia ma che prende in
profondità e non ti fa adattare al paese che lo ospita e alle abitudini che in esso si
trovano. Quasi come fosse una malattia la “Nostalghia” si impadronisce del russo che
emigra al punto da cadere in una pseudo-depressione legata a molti fattori. «Ho fatto
un film su un russo profondamente disorientato, da una parte, dalla massa di
impressioni, da cui è bombardato, dall’altra dalla tragica impossibilità di condividere
queste sue impressioni con le persone a lui più care, [...] lo scontro con un altro
mondo e con un’altra cultura e il nascente attaccamento ad essi cominciavano a
suscitare in me una quasi inconsapevole ma disperata irritazione, [...]». (Tarkovskij,
1986: 179-180)
Nostalghia, quindi, come possibilità di una riflessione più ampia, oltre che di
comunicazione su temi generali e comuni a tutti. La riflessione lo porta ad alimentare
la rabbia che ha già in corpo a causa del suo destino, che sente già segnato da questo
esilio volontario ma forzato, che non finirà mai. I ricordi lo ossessionano, lo
mantengono in questo stato psicofisico oscillante tra malinconia e rabbia tanto che le
immagini del film mostrano questa disperazione profonda, come se fossero lo
specchio della sua anima e dei suoi pensieri.
«Quello che mi interessa è l’uomo, nel quale è racchiuso l’Universo,
[...]» (Tarkovskij, 1986: 181). E, andando ancora più a fondo, scrive che questo film
vuole essere una denuncia dello stato nel quale versa la nostra società, così moderna
ed avanzata da permettere solo a pochi la possibilità di condurre una vita dignitosa.
Tarkovskij afferma quindi di aver cercato l’essenzialità nella realizzazione del film,
nella composizione del quadro, nella semplicità linguistica dei dialoghi, nel
montaggio e nella ripresa. Semplicità da opporre alla vana complessità nella quale la
nostra società si è invischiata, rendendo tutto più complicato: dai gesti più semplici,
come fruire un’opera d’arte a quelli più complicati, come innamorarsi. In un quadro
così complesso emerge il personaggio di Domenico, descritto come l’unica persona
che può fare aprire gli occhi a tutti i sani perché è considerato un pazzo e quindi,
osserva tutto come fosse alieno a questa follia autodistruttiva.
Domenico è un ex-insegnante di matematica, che terrorizzato dalla fine del
mondo, si chiude per sette anni in casa con la propria famiglia. Un uomo distrutto
dalla cattiveria che lo circonda e che decide di dare l’esempio prendendosi la sua
parte di responsabilità civile, provando a svegliare tutti coloro che lo circondano,
cercando di insegnare loro ad avere rispetto del proprio prossimo. Entrambi i
personaggi maschili muoiono nel disperato tentativo di svegliare le coscienze (Domenico) e perseguendo la propria redenzione (Gortčakov). L’eroe dei film di
Tarkovskij è un semplice uomo, con i suoi limiti e i suoi grandi interrogativi. Non
esiste nel suo cinema l’eroe che piega a suo favore gli avvenimenti, ciò che accade è
sempre vissuto come una sfida che non riesce a raccogliere con entusiasmo. Spesso
gli accadimenti sommergono l’uomo, lo sfiniscono come succede nella vita reale. «Mi
interessa l’uomo cosciente che il significato dell’esistenza consiste in primo luogo
nella lotta contro il male che è dentro di noi, nell’elevarsi nel corso della propria vita
sia pure di un solo gradino in senso spirituale.». (Tarkovskij, 1986:184).
Da ciò che Tarkovskij scrive emerge la consapevolezza del suo lavoro, la
conoscenza profonda di ciò che vuole ottenere ma non solo: egli è consapevole anche
della difficoltà che un normale fruitore può incontrare guardando una sua opera.
Difficoltà che non risiede nell’utilizzo di particolari tecniche o forme concettualmente
difficili, ma, al contrario, nell’estrema semplicità del suo fare cinema, per una società
che è abituata a percepire tutto in maniera ambigua e indiretta. Il suo cinema è così
come si vede, quasi primitivo a causa del coinvolgimento che le emozioni dovrebbero
avere durante la visione. Semplicità che sarebbe data, a suo dire, anche dall’assenza di
simboli o metafore, «[...] quando affermo che nei miei film non ci sono simboli e
metafore ogni volta il pubblico esprime la sua decisa incredulità.» (Tarkovskij, 1986:
188) che rallentano la percezione durante la fruizione. Secondo Tarkovskij il suo
cinema va solo percepito, bisognerebbe abbandonarsi senza preconcetti né tabù.
Anche determinate immagini che possono sembrare palesemente simboliche,
dovrebbero essere percepite come ciò che realmente si vede.
Tuttavia, Tarkovskij ammette che nell’ultimo piano-sequenza, si può anche
avvertire una mancanza di coerenza; ma di fatto si tratta, continua l’autore, solamente
di un vezzo artistico che si è permesso di mettere in atto.
Inoltre, molto importante per Tarkovskij sembra essere la vocazione che ogni
artista dovrebbe ricercare e perseguire. L’artista contemporaneo, ha il compito di
stimolare tutti coloro che fruiscono la sua arte a comprendere la vita più
profondamente possibile, a scavare, comparare e riflettere. A causa della complessità
della società odierna, colui che crea opere d’arte dovrebbe conoscere, di conseguenza,
molto profondamente la vita, se stesso, ed il mondo che lo circonda per poter poi
stimolare la riflessione in maniera appropriata. Bisognerebbe perciò evitare di porre la nostra parte di responsabilità sociale nelle mani di qualcun altro e diventarne invece
responsabili e consapevoli.
Per terminare con un suo pensiero, bisognerebbe «ritrovare se stessi nel tutto che
ci circonda». (Tarkovskij, 1986: 200)

In conseguenza alle osservazioni effettuate nei capitoli precedenti, all’interno
della poetica tarkovskiana possiamo isolare due elementi cardine: la responsabilità
sociale e il rifiuto del simbolo.
«[...] noi viviamo in una società che è stata creata dagli sforzi “comuni”, e non
dagli sforzi di qualcuno in particolare, nella quale l’individuo rivolge le proprie
pretese agli altri e non a se stesso [...] Il problema della responsabilità personale è
per così dire scomparso [...]». (Tarkovskij, 1986: 193)
Ovviamente la responsabilità sociale di ogni individuo deve essere fondata su una
solida ricerca spirituale, al fine di evolversi per evitare di avere poi bisogno di
riempire la vita con l’effimero. Solo avendo solide basi si può puntare a migliorare il
tutto che ci circonda. Tarkovskij a provato ad innescare questo processo di
responsabilizzazione attraverso il suo operato e la sua vita, ha cercato di essere
sempre d’esempio per coloro che lo osservavano, essendo un personaggio pubblico. Il
suo lavoro puntava ad infondere nell’altro la fiducia nel prossimo, che sta alla base
dell’intero processo.
«Ora è a tutti chiaro che l’uomo si è sviluppato senza sincronia tra il processo di
conquista dei beni materiali e quello di perfezionamento spirituale. Ciò ha condotto
al fatto che, a quanto pare, siamo fatalmente incapaci di dominare le conquiste
materiali e di utilizzarle per il nostro bene. Noi abbiamo creato una civiltà che
minaccia di distruggere l’umanità.» (Tarkovskij, 1986: 194)
Ma una inaspettata conseguenza attendeva Tarkovskij alla fine del suo percorso,
la sua Arte creata per essere uno stimolo al rinnovamento, nella maggior parte dei casi
otteneva l’effetto opposto; poiché la semplicità e le tematiche affrontate furono
interpretate come mancanza di talento e banalità intellettuale. Tutto questo accadde
probabilmente, perché il suo lavoro contestualizzato negli anni in cui operò non era
ben concepito, a causa della tendenza dilagante nel vedere sempre un significato
nascosto dietro ogni cosa e dietro ogni comportamento. Tale tendenza ha reso i film di
Tarkovskij non adatti allo scopo per cui originariamente furono creati.
«[...] lo spettatore, a quanto pare, ha a tal punto perduto la sua capacità di
abbandonarsi semplicemente alle sue impressioni estetiche immediate che subito si
riprende e controlla e si controlla chiedendosi: “a che scopo? per quale motivo?
perché?”.». (Tarkovskij, 1986: 188)
E inoltre continua affermando che:
«La pioggia, il fuoco, l’acqua, la neve, la rugiada la tormenta sono parte
dell’ambiente materiale nel quale viviamo, sono la verità della vita se volete. Perciò
mi sembra strano che la gente quando vede la natura riprodotta con commozione
sullo schermo non si limiti a goderne, ma ricerchi in essa chissà quale significato
nascosto.» (ibid.)
Ed ancora dichiara che come ogni regista, vuole semplicemente ricreare il suo
mondo come lui lo vede e lo percepisce; mondo nel quale verrà in seguito
rappresentata l’azione.
«Si potrebbe dire che le piogge sono una caratteristica della natura in mezzo alla
quale sono cresciuto. Si potrebbe dire che io amo la natura: non mi piacciono le
grandi città e mi sento benissimo lontano da tutte le novità della civiltà moderna
[…].» (ibid.).
Se domandassimo ad uno psicologo, per quali motivi Tarkovskij inserisce nei
suoi film l’acqua, egli ci potrebbe dire che l’autore manifesta in questa maniera il suo bisogno di rinascita, non si sente bene nel luogo in cui vive e non gli va bene il ruolo
che si è ricavato in questa vita.
Lo spettatore, non era in grado di decifrare ciò che era stato concepito in maniera
semplice, non riuscendo a distinguere una realizzazione esteticamente elaborata da
una creazione a sfondo simbolico. A questa forma mentis hanno provato a ribellarsi in
molti, senza ottenere nessun risultato che portasse ad un’inversione di pensiero.
Dopo aver preso in considerazione questa possibilità e le molteplici opinioni a
riguardo, ed aver sondato le varie correnti di pensiero in maniera approfondita,
possiamo ora giungere alla conclusione che, se inseriamo Tarkovskij all’interno delle
contro-tendenze, generatesi nella seconda metà del ‘900, la realizzazione dei suoi film
era in linea con ciò che pensava.
Ma, è tuttavia vero che, tanto il pensiero quanto la realizzazione dei film di
Tarkovskij sono delle utopie non realizzabili, poiché è impossibile poter guardare ciò
che comunemente è inteso come segno o simbolo, senza intenderlo come tale.
Noi vogliamo e abbiamo le basi per credere, che quanto Tarkovskij ha creato ed
affermato nei suoi ultimi film sia una linea d’azione diversa, che va approfondita, al
fine di trovare quelle falle che non la rendono credibile.
Siamo estremamente convinti che l’Arte sia un campo più che mai in evoluzione
e che quanto il singolo inizia, non è destinato a vedere lui stesso compiuto.
Crediamo che ci vorrebbe un indirizzo nel cinema dei giorni nostri, che persegua
tale fine e recuperi le fondamenta di un lavoro che era destinato a sviluppare delle
tecniche innovative e delle tematiche più che mai interessanti.
Una società che tende a camuffarsi è una società che ha bisogno di svelarsi a sé
stessa, per questo si avverte oggi il bisogno di recuperare le origini attraverso
l'abbassamento delle difese e l’abbandono dei simboli.



East of paradise di Lech Kowalski

Kowalski con la madre sul set di "East of paradise"

Lech Kowalski - East of paradise

   Roma, palazzo Farnese, fa caldo, molte persone sudano, movimenti nervosi, il tecnico incaricato della proiezione non arriva, molte ore di ascolto e riflessione.
Il pensiero di non avere un po' di refrigerio non entusiasma gli astanti, alla luce della difficoltà che comporta il dover seguire un film parlato, con testi in Polacco e inglese sottotitolato in francese, così l'approccio alla visione non è stato dei più felici.
    La sala "Anna Magnani" si oscura e iniziano a scorrere le immagini.
    Kowalski, ha messo a punto un ottimo meccanismo di precisione, le immagini non sono del tutto comuni ma neanche innovative ma i ritmi sono accostati sapientemente, si passa da ritmi seduti (soggetti alla dinamica del racconto) a momenti di pura visione, sospesi o veloci e trasandati.
    Figlio di quella New York anni '70, il regista non risparmia allo spettatore il suo sguardo sulla storia passata, con rispetto e molta cura lascia che il treno che ha assemblato vada avanti da se lui, come un navigato ferroviere, si limita a tirare la leva dello scambio quando lo ritiene opportuno.
    La sua abilità nell'accostare Gringo o il movimento Punk alla madre, viene ampiamente percepita forse un po' troppo, ma questa opinione è data da considerazioni strettamente personali, tutto questo comunque non pregiudica i restanti aspetti del film che sono molto ben definiti ed incrociati con i giusti tempi. Il suo vissuto, ad esempio, viene fuori nell'approccio nel trattare la morte, si percepisce la sua familiarità ed il rispetto che egli nutre per questo aspetto della vita che rende gringo un personaggio epico e contemporaneamente, la madre, che riuscì a scampare alla morte, viene comunque elevata al livello di grande personaggio, Eroi che non appartengono al main stream della società. Quindi la morte come discriminante per l'immortalità, come se i suoi personaggi nonostante la dipartita fisica, riescano comunque a rimanere tra noi vivi.
    L'arte di sopravvivere alla morte,  ciò che permette agli uomini e alle donne di Kowalski di rimanere eterni, si rispecchia in una tematica che sta molto a cuore allo stesso regista, il duale povertà\potere.

Carmelo Vazzana

Breve analisi dell’opera di Alfred Hitchcock

Foto dal set - "La finestra sul cortile"

Breve analisi dell’opera di Alfred Hitchcock

Il fascino che questo autore ha esercitato e continua ad esercitare su generazioni di spettatori, cinefili, addetti ai lavori e registi consiste nel complesso intrecciarsi di elementi di vita privata con elementi derivanti dalla produzione cinematografica dello stesso Hitchcock che lo rendevano un personaggio come se la sua stessa vita fosse stata un grande film.
Questa concreta impressione si è avuta e si ha tutt’oggi a causa della vicinanza tra il suo vissuto privato ed il lavoro.
Essenzialmente, la fama di Hitchcock deriva dalla sua grande abilità generata dalla totale dedizione nei confronti di questa arte, così la produzione di novità assolute a livello tecnico-pratico nella creazione di un film si unì alla nascita di nuovi dispositivi filmici.
Quando si vede o si osserva un suo film l’elemento che comunque viene fuori proprio perché lui lo voleva era la suspance, chiave di volta dell’intera produzione del grande regista, la presenza della suddetta ed ormai inflazionata peculiarità, include la modifica dell’intero iter di produzione del film, a causa dell’inserimento di un’ elemento fino a quel momento considerato passivo, il pubblico.
L’inserimento di una variabile così importante costringe l’autore a scrivere tenendo conto anche di questo nuovo punto di vista, come se il film fosse composto da ciò che si vede sullo schermo e da ciò che si può creare nella mente dello spettatore.
Una somma di immagini viste e pensate che creano la tensione che ti porta a desiderare fortemente la risoluzione dei conflitti che si vengono a creare durante la narrazione, così questo grande regista, bistrattato dai critici suoi contemporanei, riuscì a far coincidere l’innovazione e la genialità con il successo e la fama.
Certo i suoi lavori sono prettamente registici, i singoli componenti del prodotto finale sono rigidamente diretti e corretti per favorire la visione mentale del singolo (regista), così da ogni suo film emerge prepotente la personalità di un regista abituato a controllare tutto, fino al più piccolo particolare.

Carmelo Vazzana

mercoledì 8 dicembre 2010

La troupe - Andrej Tarkovkij, Offret\Sacrificio
Alle loro spalle i resti della casa che brucia nel finale del film.

David Mamet e la "catastrophe" di Samuel Beckett

Il cast di Catastrophe


Scheda tecnica

Titolo: Catastrophe
Anno di produzione: 2000
Regia di: David Mamet
Con:
Harold Pinter
Rebecca Pidgeon
John Gielgud
Produttori: Michael Colgan, Alan Moloney
Tratto da: Catastrophe (Samuel Beckett)
Direttore della fotografia: Seamus Deasy
Montaggio: Barbara Tulliver
Durata: 5’ 43’’
Immagine: Colore
Lingua: Inglese
Location: Wilton’s Music Hall - Londra

Mamet's Catastrophe

    Il film che è stato analizzato è adattato da una famosa opera teatrale di Samuel Beckett e la mancanza di uno specifico sceneggiatore cinematografico ci fa intendere che David Mamet, noto drammaturgo statunitense, abbia deciso di lavorare direttamente sul testo dello stesso Beckett, anche perché il lavoro è stato eseguito su commissione nell’ambito di un progetto nel quale sono state messe in scena tutte le opere del drammaturgo irlandese, progetto teso ad esaltare e celebrare direttamente le capacità d’innovazione dell’autore di Catastrophe.
    L’aspetto letterario, che generalmente viene considerato in maniera a se stante sia dal punto di vista produttivo che dal punto di vista analitico, è inglobato in quello che sarà il III capitolo di questo elaborato nel quale è posto a diretto confronto con l’immagine e il suono del film. Non per vezzo, quindi, ma per rigore procedurale, anche perché si andrà a considerare un metodo ed un linguaggio (quello teatrale, ed in particolare quello del teatro dell’assurdo) che si distingue dal linguaggio  cinematografico.

L’immagine della Catastrofe.

    Nonostante  la durata esigua, il film annovera al suo interno una grande quantità di peculiarità, studiate con cura. Sin dall’inizio riusciamo a creare i rapporti sociali che intercorrono tra le tre figure principali, l’assistente, il regista e il protagonista di ciò che riusciamo a definire come piece teatrale, Infatti ricorrendo alle possibilità che la PdC, il regista mette in relazione l'assistente con il regista teatrale tenendoli in campo ma mettendo a fuoco l’antepiano (porzione del quadro nel quale si trova R.) e mantenendola anche quando a parlare è A. Lo stesso carrello (della durata di 40’’) ci da la possibilità di scoprire il luogo in culi l’azione si svolge, cioè un vecchio teatro rendendo la comprensione totale molto semplice, dal punto di vista dello spettatore. Anche P. si trova ad essere sfocato in retropiano a inquadrato volutamente senza essere incluso nel quadro secondo quelle che sono le regole classiche della ripresa cinematografica, infatti viene spesso “decapitato” o relegato ad una piccola parte del fotogramma rendendo così l’immagine  squilibrata.  
    Il film è caratterizzato a livello visivo da una desaturazione, pressoché totale, del colore che come risultante porta ad avere una dominate delle scale di grigio a discapito del colore dell’incarnato degli attori e del legno che compone i palchi e le sedute che, con la loro fattura ed il loro stile, ci portano a poter inquadrare anche un periodo storico cioè i tardi anni sessanta ovviamente un aiuto importante per datare l’epoca della diegesi ci viene dato anche dall'abbigliamento degli attori stessi. La temperatura fredda dell’illuminazione ci permette di poter caratterizzare ulteriormente la situazione emotiva della diegesi stessa. Infatti i personaggi sono caratterizzati da una pesante sobrietà anche negli atteggiamenti e nella postura, solo R. presenta una parte di spavalderia legata al ruolo stesso da lui interpretato nella realtà filmica e legato a dei luoghi comuni che più tardi ci permetteranno di analizzarlo dal punto di vista semiotico.

La catastrofe non prevede musica.

    Uno degli aspetti preponderati della colonna sonora è la totale assenza di musica, infatti nulla di diegetico o extradiegetico turba il silenzio nel quale è immerso le sequenze si susseguono incalzanti. Solo le parole pronunciate dai personaggi rompono l’uniformità della scena sonora, parole che hanno un ricco bouquet di volumi e altezze onore, anche perché proprio questi elementi costituiscono, insieme alle numerose pause naturali o indotte, una “musica” che con le sue ripetizioni ricorda molto l’estetica artistica degli anni in cui Beckett scrisse l’opera.
    Gli unici suoni oltre alle parole sono derivanti dalle azioni, nulla di volutamente estraneo. Ciò che si sente è un sonoro scarno e rigido. Il sonoro dei dialoghi è legato alle leggi della spazialità ma anche legato alla soggettività dello sguardo in quel determinato momento, quindi, ci sono alcuni momenti in cui le frasi risultano volutamente meno intelligibili. 

Il dito puntato sulla catastrofe.

    Un altro aspetto, la cui analisi è stata inserita in questo capitolo per questioni di correlazione con il testo originario, è la struttura che regge il film. Per rinvenirla e renderla ben delineata, oltre all’osservazione sono stati applicati i concetti di immagine-percezione e immagine-azione, ottenendo così una struttura suddivisa in due parti, la prima (immagine-percezione) coincide con una sorta di osservazione da parte di R. del lavoro messo in pratica da A., quindi una serie di dialoghi tesi a capire cosa fosse stato fatto e perché, la seconda parte (immagine-azione, che parte dal minuto 1:28) è caratterizzata da A. utilizzata per apportare cambiamenti alla realizzazione artistica. A sostegno del modello di struttura rinvenuto, si introduce anche un aspetto della tematica centrale dell’opera di Beckett, infatti avrebbe scritto questo atto unico per criticare il potere utilizzato per censurare e revisionare, come accade nel film R. smonta una dopo l’altra tutti gli aspetti della realizzazione di A. per poi costringerla ad attuare dei cambiamenti che sovvertiranno totalmente il suo lavoro. Quindi due momenti nella narrazione. In fine, si può anche denotare un inquadratura che, secondo quanto si può denotare dal testo, è di grande rilevanza per la comprensione di un altro livello nella narrazione, cioè il primo piano del protagonista dell’opera messa in scena nel film, in quel piano l’anziano attore viene per la prima ed unica volta ripreso in volto mentre alza lo sguardo e fissa il pubblico ipotetico della sala, ma non il pubblico del film perché ripreso di trequarti (secondo Deleuze immagine-affezione). Secondo l’interpretazione usuale dovrebbe essere un ulteriore livello di sfruttamento. La persona che non è esistita fino a quel momento, non solo è il cento dell’attenzione ma guarda dritto negli occhi le persone che gradualmente smettono di battere le mani. Ma la realizzazione cinematografica rende meno impattante questa ultima inquadratura, come per sminuirne l’importanza, perché P. non guarda in macchina il che rende tutto come una fredda osservazione quasi nuovamente immagine-percezione.
     Per continuare nella descrizione dell’analisi bisogna infine ricordare il perché Beckett scrisse quest’opera. Egli fu invitato a farlo per protestare contro l’arresto  di Vaclav Havel, quindi per la prima volta una ricerca diversa stimolava il suo lavoro. La protesta messa in atto con “Catastrophe” può anche essere alla base dei due cambiamenti apportati nel film da Mamet. Egli modifica due azioni per comunicare qualcosa in più o per rendere più fruibile il risultato finale. La prima è il piccolo gesto routinario che avviene tra R. ed A., nel testo scritto da Beckett, R. che sta fumando un sigaro lo accende più volte chiedendo ad A. l’accendino (o qualcosa per accendere) mentre nel film R. ha bisogno di leggere meglio nel suo notes e di conseguenza chiede spesso ad A. una piccola lampadina tascabile, tutto questo semplicemente giocando sul temine inglese che può assumere diversi significati ma nello specifico luce o fuoco cioè light. La seconda differenza la troviamo nella scena in cui per trovare cosa non va, A. sposta la mano di P. che nel testo originale andrà ad unirsi con l’altra mentre nella realizzazione cinematografica si preferirà optare nel puntare il dito della stessa mano tutto il resto rimane invariato, cambia solo ciò che è stato detto prima, il che a prima vista può risultare insignificante ma che dal punto di vista interpretativo può voler trasmettere più incisivamente l’idea della protesta che sta alla base del lavoro.
    Un altro elemento molto importante all’interno della realizzazione originaria del lavoro che di conseguenza è messa in atto anche nel film è la presenza di una meta-riflessione, il teatro preso come esempio per il rapporto tra un potere e chi subisce lo stesso che può essere interpretato anche come critica o semplice riflessione sulla figura del regista teatrale che, infatti, di li a poco sarebbe cambiata per lasciare più spazio all’improvvisazione o alla regia collettiva. Ma l’auto riflessione è anche alla base della riflessione Deleuziana sull’immagine-cristallo ed il suo relativo virtuale che in questo caso serve proprio a mostrare, anzi a far sovvenire, in colui che guarda il film, tutto ciò che è collegato alle immagini stesse sarebbe a dire tutta la riflessione che c’è stata sopra sui possibili significati e le possibili immagini che la mente produce quando osserva quelle del film.

    Il film che è stato realizzato da David Mamet sul lavoro di Samuel Beckett se osservato senza considerare il testo originale può essere considerato un buon lavoro ben calibrato e realizzato, se invece si guarda considerando il punto di vista di Beckett può peccare di presunzione per aver, a mio parere, voluto lasciale il suo segno ad ogni costo, senza rispettare debitamente alcuni elementi essenziali nella scrittura di Beckett.

Carmelo Vazzana